Pubblicato il Maggio 17, 2024

Il riutilizzo delle acque reflue in agricoltura non è più un’opzione emergenziale, ma una pratica strategica regolata da norme precise che, se ben applicate, trasformano un costo in un vantaggio competitivo.

  • Il Regolamento UE 2020/741 definisce classi di qualità specifiche (es. Classe A per ortaggi) e richiede un Piano di Gestione dei Rischi (PGR) come scudo legale e operativo.
  • La scelta tecnologica (UV, ozono, osmosi) dipende da un’attenta analisi costi-benefici, considerando non solo l’investimento iniziale ma anche i costi operativi e la coltura da irrigare.

Raccomandazione: Invece di temere la burocrazia, utilizzate il Regolamento come una guida operativa per garantire la sicurezza del prodotto, la sostenibilità idrica e persino per valorizzare la vostra azienda agli occhi della GDO.

La siccità non è più un’emergenza stagionale, ma un dato strutturale del nostro clima. Per un agricoltore italiano, specialmente se opera in prossimità di un centro urbano o industriale, la ricerca di fonti idriche alternative e affidabili è diventata una questione di sopravvivenza aziendale. Le acque reflue depurate rappresentano una risorsa immensa e costante, ma il loro utilizzo è fonte di dubbi legittimi: è sicuro per le mie colture? È legale? Come posso proteggere la mia azienda e i miei clienti?

Molti vedono il Regolamento (UE) 2020/741 come l’ennesimo ostacolo burocratico, un complesso insieme di regole e parametri difficili da interpretare. Si parla di classi di qualità, di limiti microbiologici e di piani di gestione dei rischi, concetti che possono apparire astratti e onerosi. La tendenza comune è subire la normativa, cercando semplicemente di “essere in regola” per evitare sanzioni, senza coglierne il vero potenziale.

E se la chiave di volta fosse ribaltare questa prospettiva? Il Regolamento UE non è un nemico, ma una vera e propria cassetta degli attrezzi operativa. Non si limita a imporre dei limiti, ma fornisce un metodo scientifico per trasformare un potenziale rischio in una risorsa sicura, tracciabile e persino valorizzabile sul mercato. L’obiettivo di questa guida non è semplicemente elencare le norme, ma mostrarvi come “utilizzare” questo quadro legale per prendere decisioni informate e profittevoli, trasformando la gestione dell’acqua da un centro di costo a un pilastro della vostra strategia di sostenibilità.

Analizzeremo insieme le diverse classi di qualità dell’acqua e le colture a cui si applicano, confronteremo le tecnologie di disinfezione più efficaci, vedremo come redigere un Piano di Gestione dei Rischi che sia un vero strumento di lavoro e non solo un pezzo di carta. Infine, affronteremo gli aspetti economici e le insidie legali da evitare, per rendere il riutilizzo una scelta non solo ecologica, ma anche economicamente vantaggiosa.

Quale classe di acqua reflua serve per irrigare ortaggi da consumo crudo ?

La domanda più critica per chi coltiva ortofrutta è garantire la totale sicurezza del prodotto finale. Il Regolamento UE 2020/741 risponde a questa esigenza definendo diverse classi di qualità dell’acqua recuperata, associate a specifici usi irrigui. Per l’irrigazione di colture destinate al consumo crudo, come insalate, pomodori o fragole, dove il prodotto entra in contatto diretto con l’acqua, la norma impone senza eccezioni l’utilizzo di acqua di Classe A. Questa è la categoria con i requisiti più stringenti, pensata per offrire una barriera di sicurezza massima contro i rischi sanitari.

Raggiungere la Classe A significa rispettare parametri microbiologici e chimico-fisici molto rigorosi. I principali sono:

  • Escherichia coli: Il limite è fissato a ≤10 Unità Formanti Colonia (UFC) per 100 ml. Questo parametro è l’indicatore principale di contaminazione fecale e il suo basso limite garantisce l’assenza di patogeni intestinali.
  • Solidi Sospesi Totali (TSS) e BOD5: I limiti rispettivamente di ≤10 mg/l e ≤10 mg/l assicurano che l’acqua sia limpida e con un basso carico organico residuo. Questo non solo previene l’occlusione degli impianti di irrigazione a goccia, ma è fondamentale per l’efficacia dei sistemi di disinfezione come i raggi UV.
  • Torbidità: Mantenuta al di sotto di ≤5 NTU, garantisce che le particelle sospese non “schermino” i microrganismi dall’azione disinfettante.

Raggiungere questi standard non è un’utopia. L’esperienza del depuratore di Cesena dimostra che è tecnicamente possibile: attraverso un monitoraggio continuo, si è visto come il 10% degli effluenti terziari raggiunga già la Classe A, consentendo l’irrigazione sicura di colture orticole. Questo potenziale è enorme se si pensa che, secondo stime ENEA, solo in Emilia-Romagna si potrebbero coprire fino al 73% dei fabbisogni irrigui regionali con acque affinate, liberando preziose risorse idriche primarie.

UV o ozono : quale trattamento elimina i patogeni senza residui chimici ?

Una volta definiti i parametri della Classe A, la scelta tecnologica per la disinfezione finale diventa cruciale. L’obiettivo è inattivare virus e batteri in modo efficace, rapido e, soprattutto, senza lasciare residui chimici che potrebbero danneggiare le colture o il terreno. Le due tecnologie d’elezione per questo scopo sono la disinfezione a raggi ultravioletti (UV) e l’ozonizzazione. Entrambe sono potenti e non si basano sull’aggiunta di cloro, ma presentano differenze sostanziali in termini di costi, manutenzione ed efficacia.

I sistemi UV agiscono esponendo l’acqua a una luce ultravioletta a una specifica lunghezza d’onda (254 nm) che danneggia il DNA dei microrganismi, impedendone la riproduzione. È un processo fisico, istantaneo e molto efficace contro batteri come E. coli. Tuttavia, la sua efficacia dipende criticamente dalla limpidezza dell’acqua: una torbidità elevata può schermare i patogeni. D’altra parte, i sistemi a ozono generano ozono (O3), un gas molto instabile che, iniettato nell’acqua, ossida e distrugge le membrane cellulari dei patogeni. L’ozono è estremamente potente, efficace anche contro cisti di protozoi più resistenti, e ha un’azione ossidante che può migliorare anche colore e odore dell’acqua. Il suo principale svantaggio è il costo energetico più elevato e la potenziale formazione di sottoprodotti indesiderati (come i bromati) se nell’acqua sono presenti bromuri.

Dettaglio macro di gocce d'acqua cristalline su superficie metallica di un sistema di trattamento

La scelta non è solo tecnica, ma anche economica. Un’analisi comparativa dei costi è fondamentale per un’azienda agricola. Come mostra la tabella seguente, basata su stime per un’azienda di medie dimensioni, il sistema UV presenta generalmente un costo di investimento (CAPEX) e di esercizio (OPEX) inferiore rispetto all’ozono, ma richiede un pre-trattamento di filtrazione più spinto.

Confronto tecnico-economico UV vs Ozono per azienda agricola di 20 ettari
Parametro Sistema UV Sistema Ozono
CAPEX iniziale 15.000-25.000€ 20.000-35.000€
OPEX annuale 2.000-3.000€ 3.500-5.000€
Consumo energetico 6-8 kWh/1000m³ 10-15 kWh/1000m³
Manutenzione lampade/generatori Sostituzione ogni 12 mesi Manutenzione trimestrale
Efficacia su E. coli 3-4 log reduction 4-5 log reduction
Pre-trattamento necessario Filtrazione fine (TSS<10mg/l) Nessuno specifico
Residui chimici Nessuno Possibili bromati se bromuri presenti
Sicurezza operatore Protezione UV obbligatoria Rilevatori gas e ventilazione

La decisione finale dipenderà quindi da un bilancio tra la qualità dell’acqua in ingresso, il livello di sicurezza desiderato e la sostenibilità economica dell’investimento per la specifica realtà aziendale.

Come redigere il Piano di Gestione dei Rischi per l’uso di acque recuperate ?

Il cuore operativo e legale del Regolamento UE 2020/741 è il Piano di Gestione dei Rischi (PGR). Lungi dall’essere un mero adempimento burocratico, il PGR è il documento strategico che mappa l’intero sistema di riutilizzo, identifica i potenziali pericoli e definisce le misure di controllo per garantire la sicurezza in ogni fase: dalla produzione dell’acqua affinata fino alla sua applicazione in campo. È, a tutti gli effetti, lo scudo legale dell’agricoltore, poiché dimostra di aver agito con diligenza e secondo un metodo scientifico per proteggere la salute pubblica e l’ambiente.

La redazione del PGR richiede un approccio metodico e collaborativo tra il gestore dell’impianto di depurazione, chi trasporta l’acqua e l’agricoltore stesso. In Italia, grazie al “Decreto Siccità” (L. 68/2023), è in vigore una procedura autorizzativa semplificata che permette di ottenere il via libera dalle Regioni in 60 giorni, a condizione di presentare un PGR ben strutturato. Questo documento non è un semplice modulo da compilare, ma un’analisi dinamica che deve essere aggiornata annualmente. L’investimento per la sua redazione professionale, secondo le stime, si attesta tra i 5.000 e i 15.000€ per impianti medio-piccoli, un costo che va visto come un’assicurazione sulla continuità operativa e sulla conformità legale.

Il PGR deve affrontare in modo sistematico ogni potenziale punto debole della filiera. Non si tratta di raggiungere un “rischio zero”, che è impossibile, ma di gestire un rischio residuo calcolato e accettabile, attraverso l’implementazione di barriere multiple. Per esempio, un malfunzionamento temporaneo del sistema di disinfezione (pericolo) viene mitigato da un sistema di monitoraggio in continuo che devia automaticamente l’acqua non conforme (barriera) e da protocolli di emergenza chiari (misura correttiva).

Il vostro piano d’azione per il Piano di Gestione dei Rischi (PGR)

  1. Mappatura completa del sistema: Delineate ogni passaggio, dall’uscita del depuratore al singolo ugello di irrigazione, identificando tutti gli attori e le responsabilità.
  2. Identificazione dei pericoli specifici: Elencate i potenziali rischi microbiologici (es. picchi di E. coli), chimici (es. residui non previsti) e fisici (es. rottura tubazioni) per ogni fase.
  3. Definizione delle barriere di sicurezza: Associate a ogni pericolo una o più barriere. Esempi: filtrazione a sabbia, disinfezione UV, stoccaggio controllato, irrigazione a goccia sottosuperficiale.
  4. Stima del rischio residuo: Valutate qualitativamente o quantitativamente (ove possibile) il rischio che rimane dopo l’applicazione delle barriere, per dimostrare che è a un livello accettabile.
  5. Piano di monitoraggio e protocolli di emergenza: Definite cosa misurare, dove, con quale frequenza (in linea con l’Allegato II del Regolamento) e cosa fare esattamente se un valore sfora i limiti.

L’errore di nascondere l’uso di acqua riciclata ai vostri clienti GDO

Nell’immaginario di molti agricoltori, l’uso di acqua di recupero è un’informazione da gestire con cautela, se non da omettere, per timore di reazioni negative da parte dei consumatori o, peggio, dei buyer della Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Questo approccio, basato sulla paura, è un errore strategico. Nell’attuale contesto di mercato, dove la sostenibilità è diventata un driver di acquisto fondamentale, la trasparenza sulla gestione idrica non è una debolezza, ma un potentissimo strumento di marketing e un elemento di differenziazione. Nasconderlo significa perdere un’opportunità.

I clienti della GDO non cercano solo un prodotto di qualità a un buon prezzo; cercano fornitori affidabili, resilienti e con una storia di sostenibilità da raccontare. Dimostrare di avere un approccio strategico alla carenza idrica, attraverso l’uso sicuro e certificato di acque recuperate, comunica diversi messaggi positivi: ridotta dipendenza dalle fonti tradizionali (e quindi minor rischio di interruzione delle forniture), minor impatto ambientale e un allineamento con gli obiettivi di economia circolare. Questo approccio è in linea con la visione strategica nazionale, come sottolineato anche dal Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, che ha evidenziato la necessità di affrontare la carenza idrica come un fenomeno strutturale.

Mani che tengono un tablet mostrando grafiche verdi in un campo irrigato

Studio di caso: La strategia di comunicazione del gruppo Caviro

Il gruppo Caviro, leader nel settore vitivinicolo, ha trasformato il riutilizzo di circa 800.000 m³ annui di acque reflue agroindustriali in un pilastro della sua comunicazione sulla sostenibilità. Invece di nascondere questa pratica, l’azienda la promuove attivamente nel suo bilancio di sostenibilità e verso i propri stakeholder. Le prove condotte hanno dimostrato non solo l’assenza di impatti negativi sulla produttività dei vigneti, ma anche un beneficio aggiunto: una riduzione del 30% nell’uso di fertilizzanti grazie ai nutrienti presenti nell’acqua. Questa “garanzia di filiera” rafforza il posizionamento del marchio e crea un legame di fiducia con i buyer più esigenti.

La chiave è non parlare genericamente di “acqua reflua”, ma di “acqua recuperata di alta qualità, certificata secondo standard europei”. Il Regolamento UE e il Piano di Gestione dei Rischi diventano così non solo strumenti interni, ma veri e propri certificati di qualità da esibire, che attestano un processo controllato, sicuro e all’avanguardia.

Quando il costo di trasporto dell’acqua reflua supera il risparmio sull’emungimento ?

L’adozione di acque recuperate non è solo una questione tecnica e normativa, ma soprattutto economica. La convenienza di questa scelta dipende da un delicato equilibrio tra i costi evitati (il prelievo da pozzo o da rete consortile) e i nuovi costi sostenuti, primo fra tutti quello del trasporto dell’acqua dal depuratore al campo. Ignorare questa analisi può trasformare una soluzione promettente in un’operazione in perdita. È fondamentale calcolare la propria, specifica “soglia di sostenibilità economica”.

I fattori da considerare sono molteplici. Da un lato, il risparmio: il costo di emungimento da pozzo non è solo energetico (il consumo della pompa), ma include anche il canone di concessione regionale e i costi di manutenzione. Dall’altro lato, i costi del riutilizzo: se non si è collegati direttamente a una rete, il trasporto tramite autocisterna diventa la voce di spesa principale, influenzata dal prezzo del gasolio agricolo e dalla distanza da percorrere. A questo si aggiunge il costo energetico per il pompaggio dall’eventuale vasca di stoccaggio al sistema di irrigazione.

Per avere un’idea di massima, si può stimare una convenienza economica fino a distanze diverse a seconda del valore della coltura: un conto è irrigare mais, un altro è irrigare orticole di pregio o fiori. Generalmente, per colture a basso margine come i cereali, la convenienza si esaurisce entro i 5-7 km, mentre per l’ortofrutta si può arrivare a 15 km e oltre per il florovivaismo. La vera svolta, però, arriva con le soluzioni consortili. L’adesione a un consorzio di bonifica che gestisce una rete di distribuzione dedicata può abbattere drasticamente i costi individuali.

Studio di caso: Il modello del Canale Emiliano Romagnolo (CER)

Il Consorzio di bonifica del Canale Emiliano Romagnolo (CER) ha creato una rete di distribuzione che integra acque del canale principale con acque recuperate da depuratori. Questo modello ha permesso di servire decine di utenze abbattendo i costi di trasporto individuali di oltre il 60%. Grazie a questa infrastruttura condivisa, il riutilizzo diventa sostenibile anche per colture a basso margine e su distanze maggiori, dimostrando che l’unione fa la forza e, soprattutto, l’efficienza economica.

Prima di intraprendere qualsiasi investimento, è essenziale mettere nero su bianco i numeri, calcolando il proprio punto di pareggio. Solo così si potrà valutare se il riutilizzo, per la propria specifica azienda, è una scelta davvero vantaggiosa.

L’errore interpretativo sul D.Lgs 152/06 che vi espone a sanzioni penali sullo scarico

Uno degli errori più gravi e sottovalutati che un agricoltore possa commettere è non comprendere la sottile ma fondamentale distinzione giuridica tra “acqua affinata per il riutilizzo” e “acqua reflua”. Confondere questi due stati espone a rischi legali enormi, che possono culminare in pesanti sanzioni amministrative e persino penali. Il punto cruciale è la gerarchia normativa: il Regolamento UE 2020/741 disciplina l’acqua nel momento in cui è resa conforme e destinata al riutilizzo irriguo; tutto ciò che non rientra in questa categoria, o che perde i requisiti di conformità, ricade automaticamente sotto la severa disciplina nazionale sugli scarichi, ovvero il Decreto Legislativo 152/2006 (Testo Unico Ambientale).

In pratica, l’acqua che ricevete dal depuratore è “acqua affinata” solo se e finché rispetta i parametri della classe di qualità richiesta. Se, per un qualsiasi motivo (un guasto all’impianto, una contaminazione durante lo stoccaggio), un lotto d’acqua perde tali requisiti, cessa istantaneamente di essere “acqua affinata” e ridiventa legalmente un “refluo”. A questo punto, qualsiasi rilascio incontrollato nell’ambiente, anche accidentale (es. una fuoriuscita dalla vasca di stoccaggio), non è più un problema gestionale, ma si configura come “scarico non autorizzato” ai sensi del D.Lgs 152/06.

Le conseguenze sono pesantissime. La normativa ambientale italiana prevede sanzioni amministrative da 6.000 a 60.000 euro per lo scarico di reflui senza autorizzazione. Ma il rischio non si ferma qui: a seconda della natura e della quantità dello sversamento, possono scattare anche fattispecie di reato, con conseguenze penali per il responsabile dell’azienda. La mancata tenuta di registri di conformità o l’assenza di protocolli di emergenza sono considerate aggravanti.

Per proteggersi, è indispensabile implementare una serie di misure preventive che fanno parte integrante di un buon Piano di Gestione dei Rischi:

  • Documentare la conformità: Mantenere un registro per ogni lotto d’acqua ricevuto, che attesti il rispetto dei parametri al momento del carico.
  • Monitoraggio nello stoccaggio: Verificare periodicamente la qualità dell’acqua anche nelle vasche aziendali per rilevare eventuali degradazioni.
  • Sistemi di sicurezza: Installare sistemi di by-pass che, in caso di non conformità rilevata in continuo, deviano automaticamente l’acqua verso uno scarico autorizzato anziché verso l’irrigazione o lo stoccaggio.
  • Protocolli di emergenza: Avere un piano chiaro e testato su come gestire sversamenti accidentali per contenere il danno e dimostrare di aver agito con prontezza.

Ignorare questa distinzione non è un’opzione. La tutela della propria azienda passa attraverso una gestione impeccabile non solo della qualità, ma anche dello status giuridico dell’acqua che si utilizza.

Osmosi inversa per irrigare : è economicamente sostenibile per colture ad alto reddito ?

Quando si parla di tecnologie di affinamento, l’osmosi inversa (OI) rappresenta la frontiera più avanzata. Questa tecnologia a membrana è in grado di rimuovere non solo batteri e virus, ma anche i sali disciolti, producendo un’acqua di qualità purissima, quasi demineralizzata. L’applicazione in agricoltura, tuttavia, solleva un’immediata domanda: un simile livello di trattamento è economicamente sostenibile? La risposta, in generale, è no per le colture estensive. Ma per le colture ad alto reddito, specialmente quelle destinate all’export in mercati esigenti, la risposta può essere sorprendentemente positiva.

L’osmosi inversa ha due principali ostacoli: l’elevato consumo energetico e la produzione di un refluo concentrato e salino (il “concentrato” o “brine”), il cui smaltimento rappresenta un costo e un problema ambientale. Tuttavia, in contesti specifici, questi svantaggi possono essere mitigati o addirittura trasformati in opportunità. La sostenibilità dell’OI dipende da tre fattori chiave: il valore della produzione agricola, il costo dell’energia e la capacità di gestire o valorizzare il concentrato salino.

Per colture come ortaggi premium, fiori recisi, o produzioni in serra ad alta tecnologia, la garanzia di un’acqua irrigua con salinità controllata e priva di qualsiasi contaminante può tradursi in un aumento significativo della qualità e della commerciabilità del prodotto. Un’acqua a bassa salinità permette un controllo più preciso della fertirrigazione, migliora l’assorbimento dei nutrienti e previene l’accumulo di sali nel suolo, un problema serio in molte aree costiere italiane. Questo si traduce in rese più alte, prodotti con una shelf-life più lunga e un accesso a mercati di fascia alta che ripagano ampiamente l’investimento tecnologico.

Studio di caso: La gestione innovativa del concentrato a Fasano (BR)

In Puglia, regione che lotta cronicamente con la salinizzazione delle falde, l’impianto di affinamento di Fasano rappresenta un modello di eccellenza. Qui, l’acqua destinata all’irrigazione di 1000 ettari di colture pregiate viene trattata con osmosi inversa. Il problema del concentrato salino è stato risolto in modo innovativo: invece di smaltirlo, viene ulteriormente trattato con un processo di cristallizzazione frazionata che permette di recuperare sali per uso industriale, riducendo del 90% il volume dello scarto finale. Questo approccio integrato ha permesso un incremento del valore della produzione agricola del 40%, dimostrando che, con la giusta strategia, l’osmosi inversa può essere un potentissimo motore di sviluppo per l’agricoltura di qualità.

L’osmosi inversa non è quindi una soluzione per tutti, ma un investimento strategico da considerare attentamente per quelle aziende che puntano all’eccellenza e che possono integrare la tecnologia in un sistema virtuoso di valorizzazione dei sottoprodotti.

Da ricordare

  • Sicurezza prima di tutto: Per irrigare colture da consumo crudo, la Classe A del Reg. UE 2020/741 è l’unico standard accettabile, garantendo la massima protezione sanitaria.
  • Il PGR è il vostro scudo: Il Piano di Gestione dei Rischi non è burocrazia, ma lo strumento operativo e legale che mappa i pericoli e definisce le barriere di sicurezza, proteggendo la vostra azienda.
  • L’economia guida la scelta: La convenienza del riutilizzo dipende da un’attenta analisi dei costi (tecnologia, trasporto) rispetto ai benefici (risparmio idrico, valore della coltura), calcolando il proprio punto di pareggio.

Osmosi o ultrafiltrazione : quale tecnologia scegliere per riutilizzare l’acqua di processo in sicurezza ?

Se il riutilizzo per l’irrigazione è una frontiera, quello all’interno dei processi produttivi agroalimentari è una necessità sempre più pressante. Lavaggio di frutta e verdura, pulizia di impianti e serbatoi, governo del formaggio: sono tutte operazioni che richiedono grandi volumi d’acqua. Il riutilizzo in questi ambiti è possibile, ma la scelta della tecnologia di affinamento diventa ancora più delicata, poiché l’acqua entra spesso in contatto diretto con l’alimento. Le tecnologie a membrana, come l’ultrafiltrazione (UF) e l’osmosi inversa (OI), offrono le maggiori garanzie di sicurezza, ma la scelta tra le due dipende strettamente dal tipo di industria e dall’impatto desiderato sul prodotto finale.

L’ultrafiltrazione utilizza membrane con pori molto piccoli (circa 0,01 micron) in grado di trattenere fisicamente batteri, virus, proteine e altre macromolecole, lasciando però passare i sali minerali disciolti. È una barriera microbiologica eccellente, relativamente economica in termini energetici, ideale quando si vuole sanificare l’acqua senza alterarne la composizione salina. Al contrario, l’osmosi inversa, come visto, spinge il trattamento a un livello superiore, rimuovendo anche i sali. Questo produce un’acqua purissima, ma può essere controproducente in alcuni settori o semplicemente eccessivo e troppo costoso per altri.

La decisione, quindi, deve essere guidata dal prodotto. Come evidenziato in una ricerca congiunta ENEA-CREA, la specificità del settore è tutto:

L’ultrafiltrazione può essere sufficiente per le acque di lavaggio in un caseificio, mentre l’osmosi inversa diventa necessaria per garantire le caratteristiche organolettiche nell’industria conserviera del pomodoro.

– Studio ENEA-CREA, Ricerca sulle tecnologie di affinamento per il settore agroalimentare, 2024

Questa distinzione è fondamentale. In un caseificio di Parmigiano Reggiano, ad esempio, l’acqua usata per il governo delle forme deve essere microbiologicamente pura ma mantenere una certa salinità per non alterare il processo osmotico del formaggio: qui l’ultrafiltrazione è perfetta. Nell’industria conserviera, invece, un’acqua con troppi sali potrebbe alterare il sapore del prodotto finale e ridurne la shelf-life: qui l’osmosi inversa è la scelta vincente. Ogni settore ha le sue esigenze:

  • Cantine vinicole: UF + UV per le acque di lavaggio di botti e attrezzature, per non introdurre elementi che alterino il profilo sensoriale del vino.
  • Industria della pasta: Osmosi parziale, miscelando acqua trattata e non, per trovare il bilancio ideale tra qualità dell’acqua per l’impasto e contenimento dei costi energetici.
  • Tutte le filiere: È imperativo verificare la conformità MOCA (Materiali e Oggetti a Contatto con Alimenti) di tutti i componenti dell’impianto e integrare la gestione dell’acqua riutilizzata nel proprio manuale HACCP.

La scelta tecnologica per l’acqua di processo non è una gara a chi “pulisce di più”, ma una decisione strategica basata sulla profonda conoscenza del proprio prodotto e dei propri standard qualitativi.

Per tradurre questi principi in un piano d’azione concreto per la vostra azienda, il primo passo consiste nell’avviare un’analisi di fattibilità tecnica ed economica, valutando la qualità dell’acqua disponibile, le esigenze delle vostre colture e le infrastrutture necessarie.

Scritto da Stefano Fabbri, Ingegnere Idraulico e progettista di sistemi irrigui ad alta efficienza, con 15 anni di esperienza nella gestione delle risorse idriche in zone a rischio siccità. Specialista in recupero acque reflue e invasi aziendali.