Pubblicato il Maggio 20, 2024

In sintesi:

  • Il vero problema non è quanta acqua si dà, ma quanta se ne perde per evaporazione e stress termico.
  • La pacciamatura, organica o biodegradabile, è la prima linea di difesa per raffreddare le radici e trattenere l’umidità.
  • Irrigare all’alba massimizza l’assorbimento e minimizza le perdite, sfruttando la fisiologia della pianta.
  • La tecnologia (sensori) e le tecniche agronomiche (lavorazioni, reti) trasformano l’irrigazione da un costo a un investimento strategico.

L’estate italiana è sempre più sinonimo di ondate di calore e siccità. Per ogni orticoltore o giardiniere, la scena è fin troppo familiare: le piante appaiono sofferenti, con le foglie afflosciate sotto il sole cocente, nonostante le irrigazioni generose. Si aumenta la frequenza, si bagnano le foglie la sera, si seguono i consigli tradizionali, ma il risultato non cambia. Questa frustrazione nasce da un presupposto sbagliato: che per combattere la sete basti dare più acqua. La realtà, però, è molto più complessa e risiede nel delicato equilibrio del sistema suolo-pianta-atmosfera.

Le soluzioni comuni, come bagnare abbondantemente o usare qualsiasi tipo di pacciamatura, spesso non bastano perché non affrontano le cause profonde del problema: l’evaporazione accelerata, lo stress termico che blocca le radici e l’incapacità del terreno di funzionare come una riserva idrica. E se la vera chiave non fosse semplicemente “dare acqua”, ma “proteggere l’acqua” una volta che è nel terreno? Se l’efficienza non si misurasse in litri versati, ma nella capacità del nostro sistema colturale di trattenerli e utilizzarli al meglio?

Questo articolo adotta la prospettiva di un agronomo esperto in gestione dello stress idrico. Non ci limiteremo a elencare cosa fare, ma spiegheremo il perché scientifico dietro ogni tecnica. Analizzeremo come trasformare il suolo in una spugna efficiente, come scegliere la pacciamatura non solo per coprire, ma per raffreddare, e come usare la tecnologia per irrigare con una precisione quasi chirurgica. L’obiettivo è passare da un’irrigazione di emergenza a una gestione idrica strategica, per garantire piante sane e produttive anche quando il termometro sale.

Paglia o telo biodegradabile: quale pacciamatura raffredda meglio le radici in agosto?

La pacciamatura non è solo uno strato di materiale posto sul terreno; è il primo e più efficace strumento per controllare il microclima radicale. Durante le ondate di calore, la temperatura del suolo nudo può superare i 50°C, causando uno stress termico radicale che inibisce l’assorbimento di acqua e nutrienti, anche in presenza di umidità. Una corretta pacciamatura agisce come uno scudo isolante, mantenendo le radici più fresche e attive. Non a caso, studi agronomici dimostrano che la pacciamatura può ridurre fino al 50% il consumo idrico, principalmente limitando l’evaporazione diretta.

La scelta del materiale, però, è cruciale. La paglia di grano duro, applicata in uno strato di 5-7 cm, è eccellente per le colture orticole. Il suo colore chiaro riflette la radiazione solare, mentre la sua struttura porosa permette il passaggio dell’aria, evitando la formazione di muffe. Al contrario, i teli biodegradabili in Mater-Bi, spesso usati per colture industriali come il pomodoro, sono efficaci nel controllo delle infestanti e nell’aumentare la temperatura del suolo in primavera, ma in piena estate possono surriscaldare eccessivamente l’apparato radicale se non scelti di colore bianco o riflettente. La scelta dipende quindi dall’obiettivo: la paglia è superiore per il raffreddamento estivo, mentre il telo offre altri vantaggi gestionali.

Per un’azione ancora più profonda, l’integrazione di biochar (carbone vegetale) nello strato superficiale del terreno, sotto la pacciamatura, può migliorare la ritenzione idrica del 25-30%. La sua struttura microporosa agisce come una miriade di piccole spugne, trattenendo l’acqua e rilasciandola lentamente alle radici. Monitorare la temperatura del suolo a diverse profondità (5, 10, 20 cm) con un semplice termometro da terreno permette di valutare oggettivamente l’efficacia della strategia scelta e di intervenire prima che le piante mostrino segni di stress.

Perché irrigare alle 5 del mattino fa risparmiare il 20% di acqua rispetto alla sera?

La scelta del momento per irrigare è una delle decisioni più sottovalutate, eppure ha un impatto enorme sull’efficienza d’uso dell’acqua (WUE). Irrigare alle 5 del mattino non è solo una questione di buone abitudini, ma una precisa scelta fisiologica. A quell’ora, la temperatura dell’aria e del suolo è al minimo, il vento è generalmente assente e l’umidità relativa è alta. Queste condizioni riducono drasticamente le perdite per evaporazione prima che l’acqua raggiunga le radici. Inoltre, e questo è il punto chiave, le piante sono fisiologicamente pronte ad assorbire acqua. Gli stomi (i pori sulle foglie) si stanno per aprire in preparazione della fotosintesi diurna, creando un “richiamo” attivo di acqua dalle radici.

Sistema di irrigazione a goccia in funzione all'alba in un campo agricolo italiano con rugiada mattutina

Al contrario, irrigare la sera tardi, sebbene sembri una buona alternativa, presenta delle controindicazioni. Le piante di notte riducono la loro attività traspiratoria e l’acqua tende a ristagnare sulla superficie del suolo e del fogliame per molte ore. Questo ambiente umido e stagnante è l’ideale per la proliferazione di malattie fungine come oidio e peronospora. Dunque, mentre le perdite per evaporazione sono basse anche di sera, il rischio fitosanitario aumenta. L’irrigazione mattutina, invece, permette al fogliame di asciugarsi rapidamente con le prime luci del sole, minimizzando i rischi. Studi condotti anche in ambito accademico confermano che irrigare nelle ore più fresche può ridurre le perdite per evaporazione fino al 30% rispetto alle ore centrali, garantendo che l’acqua arrivi dove serve davvero.

La differenza di efficienza tra mattina presto e sera si attesta intorno al 20% proprio per questa combinazione di fattori: massima disponibilità per la pianta e minimo rischio sanitario. L’acqua fornita all’alba viene immediatamente messa “in circolo” dalla pianta per sostenere le attività della giornata, rappresentando un vero e proprio investimento e non una semplice bagnatura.

Rompere la crosta superficiale: tecnica antica valida o pratica che secca il terreno?

La sarchiatura, ovvero la lavorazione superficiale del terreno per rompere la crosta che si forma dopo piogge o irrigazioni, è una pratica agronomica antica. Il suo scopo principale è interrompere la risalita capillare dell’acqua dagli strati più profondi verso la superficie, dove evaporerebbe rapidamente. Immaginiamo dei minuscoli “tubicini” che si formano nel terreno compatto e che, come delle cannucce, portano l’acqua in superficie. La sarchiatura rompe questi canali, creando uno strato di terra smossa che agisce come una pacciamatura naturale, isolando l’umidità sottostante. Dati sperimentali indicano che le lavorazioni superficiali di coltivazione come la sarchiatura riducono l’evapotraspirazione fino al 17%.

Tuttavia, la sua efficacia non è universale e dipende criticamente dal tipo di suolo. Anzi, in alcuni contesti, può rivelarsi controproducente. La domanda non è “sarchiare sì o no?”, ma “quando e come sarchiare?”.

Efficacia della sarchiatura per tipo di terreno
Tipo di terreno Efficacia sarchiatura Rischio evaporazione Alternativa consigliata
Argilloso pesante Alta Basso Sarchiatura leggera + pacciamatura
Sabbioso Bassa Alto Solo pacciamatura organica
Medio impasto Media Medio Sarchiatura + agenti umettanti
Limoso Media Alto dopo pioggia Minima lavorazione + cover crops

Come mostra la tabella, su terreni argillosi la sarchiatura è molto efficace: la crosta è tenace e romperla apporta grandi benefici. Su terreni sabbiosi, invece, la pratica è sconsigliata: la struttura è già incoerente e una lavorazione non farebbe altro che esporre all’aria una maggiore superficie, accelerando l’asciugatura. Qui, la priorità assoluta è aggiungere sostanza organica e pacciamare. Per i terreni di medio impasto o limosi, la sarchiatura va eseguita con cautela, lavorando solo i primissimi centimetri e preferibilmente abbinandola ad altre tecniche conservative. In conclusione, la sarchiatura rimane una tecnica valida, ma solo se applicata con cognizione di causa, trasformandosi da un gesto abitudinario a un intervento agronomico di precisione.

Reti ombreggianti: quale percentuale di ombra scegliere per non bloccare la fotosintesi?

Quando le temperature superano costantemente i 30-35°C e l’insolazione è massima, anche le piante meglio irrigate possono andare in blocco fotosintetico. È un meccanismo di autodifesa: per non perdere troppa acqua traspirando, la pianta chiude gli stomi, interrompendo però anche l’assorbimento di CO2 e, di conseguenza, la fotosintesi. Le reti ombreggianti intervengono proprio su questo punto, non solo abbassando la temperatura, ma soprattutto riducendo l’intensità della radiazione luminosa a un livello ottimale. L’obiettivo non è “fare ombra”, ma filtrare la luce per evitare il surplus dannoso senza compromettere la produzione di energia.

Reti ombreggianti colorate installate sopra colture orticole italiane con diversi gradi di ombreggiatura

La scelta della percentuale di ombreggiatura è il fattore più critico e varia in base alla coltura e alla zona geografica. Una regola generale per le orticole è:

  • 20-30% di ombreggiatura: Ideale per piante da frutto come pomodori, peperoni e melanzane. Questa leggera riduzione della luce è sufficiente a prevenire le scottature sui frutti e lo stress termico, senza limitare la produzione.
  • 30-40% di ombreggiatura: Perfetta per le orticole da foglia come lattughe, spinaci e basilico. Per una coltura esigente come il basilico ligure, un’ombreggiatura del 35% nelle ore centrali della giornata è ottimale per proteggere le foglie delicate mantenendo una crescita vigorosa.
  • 50% o più: Riservata a colture spiccatamente sciafile (che amano l’ombra) o per fasi delicate come l’attecchimento di giovani piantine. Usare una percentuale così alta su colture eliofile (che amano il sole) può causare eziolatura (allungamento anomalo degli steli) e ridurre drasticamente il raccolto.

Oggi esistono anche reti fotoselettive colorate che modificano lo spettro luminoso: le reti rosse, ad esempio, stimolano la fruttificazione, mentre quelle perlate diffondono meglio la luce, riducendo ulteriormente lo stress. L’investimento in reti di qualità si ripaga in 2-3 stagioni, grazie a un aumento della resa e, soprattutto, a una drastica riduzione degli scarti per scottatura, che possono arrivare al 40%.

Quando la sostanza organica agisce come una spugna trattenendo l’acqua?

In un contesto di crescente scarsità idrica, come confermato dai dati ufficiali, la capacità del suolo di immagazzinare acqua diventa un fattore strategico. Secondo i dati ISPRA 2023, l’Italia ha registrato una riduzione media del 18% della disponibilità idrica, un dato che impone un cambio di paradigma nella gestione agricola. Non possiamo più considerare il suolo come un semplice supporto inerte, ma dobbiamo gestirlo come un vero e proprio serbatoio. È qui che la sostanza organica gioca il suo ruolo da protagonista, agendo come una spugna naturale.

La sostanza organica, e in particolare la sua frazione più stabile, l’humus, ha una capacità eccezionale di trattenere l’acqua. Un suolo ricco di humus può contenere fino a 5-6 volte il proprio peso in acqua, rilasciandola gradualmente all’apparato radicale. Incrementare il contenuto di sostanza organica di un solo punto percentuale in un ettaro di terreno significa aumentare la sua capacità di ritenzione idrica di decine di migliaia di litri. Questo effetto “spugna” si manifesta in tre modi principali:

  1. Aumento della ritenzione idrica: Le molecole di humus legano a sé le molecole d’acqua, sottraendole sia alla forza di gravità (percolazione profonda) sia all’evaporazione.
  2. Miglioramento della struttura: La sostanza organica agisce da collante per le particelle di argilla e limo, creando aggregati stabili. Questo rende il terreno più poroso e soffice, facilitando l’infiltrazione dell’acqua piovana o irrigua e riducendo il ruscellamento superficiale.
  3. Stimolo dell’attività biologica: Un suolo ricco di sostanza organica è un suolo vivo. Lombrichi, funghi e batteri creano una rete di micro e macro-canali che migliorano ulteriormente la capacità del terreno di “bere” e immagazzinare l’acqua.

Per ottenere questi benefici, è fondamentale apportare regolarmente compost maturo, letame, sovesci e residui colturali, adottando pratiche di agricoltura conservativa che minimizzino la lavorazione e mantengano il suolo sempre coperto. In questo modo, il terreno si trasforma da un contenitore che perde a una riserva strategica attiva.

Sonde capacitive o tensiometri: quale sensore è più affidabile per terreni argillosi?

Passare da un’irrigazione “a calendario” a un’irrigazione “di precisione” significa dare acqua solo quando la pianta ne ha realmente bisogno. Questo è possibile solo misurando l’umidità del suolo con appositi sensori. I due strumenti più diffusi sono i tensiometri e le sonde capacitive, ma la loro affidabilità dipende fortemente dal tipo di terreno. Scegliere lo strumento sbagliato può portare a decisioni irrigue errate, sprecando acqua e danneggiando le colture.

Il tensiometro è uno strumento semplice ed economico che misura la “fatica” che le radici devono fare per estrarre acqua dal suolo (il potenziale idrico). Funziona bene in molti contesti, ma ha un tallone d’Achille proprio nei terreni argillosi. Come sottolinea il CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria):

L’errore comune nei terreni argillosi è che un tensiometro può perdere il contatto idraulico quando il terreno si crepa per la siccità, fornendo dati falsi.

– CREA – Centro di ricerca per l’agricoltura, Il suolo dà da bere – Tecniche irrigue

In pratica, quando il terreno argilloso si secca e forma delle crepe, la punta porosa del tensiometro può trovarsi in una bolla d’aria, indicando erroneamente che il terreno è ancora umido. Le sonde capacitive, invece, misurano il contenuto volumetrico di acqua nel suolo analizzando le sue proprietà dielettriche. Non avendo bisogno di un contatto idraulico perfetto, sono molto più affidabili e precise nei terreni argillosi e pesanti, che tendono a ritirarsi e creparsi. Sebbene l’investimento iniziale sia maggiore, la precisione dei dati forniti da una sonda capacitiva permette un risparmio idrico e un controllo dello stress della pianta che ripagano ampiamente il costo, soprattutto in colture di pregio come la vite.

Il tuo piano d’azione: implementare sensori in vigneto

  1. Installare sonde capacitive a 20, 40 e 60 cm di profondità nel filare per monitorare l’intero profilo radicale.
  2. Posizionare almeno 3 stazioni di monitoraggio per ettaro in zone rappresentative delle diverse tessiture del suolo.
  3. Calibrare i sensori con analisi del suolo specifiche per il contenuto di argilla, per una lettura accurata.
  4. Integrare i dati dei sensori con dati satellitari (es. Copernicus) per avere una visione d’insieme e validare le misurazioni.
  5. Programmare soglie di intervento irriguo basate sul potenziale idrico della coltura (es. -0.5 MPa per il Sangiovese in fase di invaiatura).

L’errore di sfogliatura che espone i grappoli alle scottature solari irreversibili

In viticoltura, la sfogliatura è una pratica comune che consiste nel rimuovere le foglie basali attorno ai grappoli. Lo scopo è migliorare l’arieggiamento per prevenire le malattie fungine e favorire l’accumulo di colore e zuccheri grazie a una maggiore esposizione solare. Tuttavia, con l’intensificarsi delle ondate di calore, questa pratica, se eseguita nel momento sbagliato o in modo troppo aggressivo, si trasforma in un errore gravissimo. Una sfogliatura tardiva, eseguita a ridosso della piena estate, espone improvvisamente i grappoli, fino a quel momento protetti, a una radiazione solare intensa e a temperature torride. Il risultato è la scottatura solare: gli acini si disidratano, si lessano e acquisiscono sentori sgradevoli di cotto, compromettendo irrimediabilmente la qualità e la quantità del raccolto.

L’errore non è la sfogliatura in sé, ma la sua tempistica. La pratica andrebbe eseguita precocemente, subito dopo la fioritura, per permettere ai grappoli di “abituarsi” gradualmente al sole. In annate e areali particolarmente caldi, la tendenza moderna è quella di non sfogliare affatto il lato più esposto al sole (generalmente ovest) o di adottare tecniche alternative che proteggano i grappoli senza rinunciare ai benefici dell’arieggiamento.

Studio di caso: Protezione dei grappoli con caolino in Sicilia

In regioni come la Sicilia e la Sardegna, dove le temperature estive superano regolarmente i 40°C, i viticoltori stanno abbandonando la sfogliatura tardiva a favore di alternative innovative. Una delle più efficaci è l’applicazione di prodotti a base di caolino o zeoliti. Queste polveri minerali, distribuite sui grappoli, creano una sottile patina bianca che riflette la radiazione solare e riduce la temperatura superficiale dell’acino di diversi gradi, agendo come una vera e propria “crema solare”. Come riportato da operatori del settore, questa tecnica, unita a una gestione oculata della chioma, permette di prevenire quasi totalmente i danni da scottatura su vitigni sensibili, preservando la qualità aromatica e aumentando la resa commerciabile.

Questa evoluzione delle pratiche dimostra come l’adattamento al cambiamento climatico richieda di rimettere in discussione anche le tecniche agronomiche più consolidate, privilegiando la protezione rispetto alla massima esposizione.

Da ricordare

  • La vera efficienza idrica non sta nel dare più acqua, ma nel creare un sistema (suolo, pacciamatura, ombreggio) che la conservi e la protegga.
  • Ogni tecnica, dalla sarchiatura alla sfogliatura, non è universalmente valida ma va adattata al tipo di suolo, alla coltura e al momento stagionale.
  • La tecnologia, come i sensori capacitivi e le reti fotoselettive, offre soluzioni di precisione per superare i limiti delle pratiche tradizionali in un clima che cambia.

Come fermare l’erosione idraulica nei vigneti in pendenza dopo i temporali estivi?

Le estati moderne non sono fatte solo di siccità, ma anche di eventi meteorologici estremi, come i temporali violenti che scaricano in pochi minuti enormi quantità di pioggia. Nei vigneti in pendenza, un classico del paesaggio italiano, questo rappresenta un rischio enorme di erosione idraulica. L’acqua, non riuscendo a infiltrarsi in un terreno spesso secco e compattato, scorre violentemente in superficie, trascinando con sé lo strato più fertile del suolo, scoprendo le radici e creando solchi profondi. Fermare questo processo non è solo una questione di conservazione del suolo, ma anche di gestione idrica: l’acqua che scorre via è acqua persa, che non andrà a ricaricare le riserve del terreno.

La strategia di difesa si basa su un principio: rallentare la velocità dell’acqua e darle il tempo di infiltrarsi. Questo si ottiene creando ostacoli e coperture vegetali permanenti. Abbandonare la lavorazione completa del sottofila a favore dell’inerbimento è il primo passo. Un miscuglio di specie resistenti come la festuca arundinacea e il trifoglio sotterraneo crea un tappeto erboso denso che protegge il suolo dall’impatto delle gocce di pioggia e le cui radici lo mantengono coeso. Nei punti di maggiore pendenza o dove l’erosione è già iniziata, sono necessari interventi più strutturali:

  • Ciglioni inerbiti: Terrazzamenti stretti, realizzati ogni 5-7 filari, che interrompono la pendenza e creano una zona pianeggiante dove l’acqua può fermarsi e infiltrarsi.
  • Fascinate vive: Barriere realizzate con rami intrecciati di specie a rapido radicamento (come salici), posizionate trasversalmente alla pendenza per bloccare il suolo e l’acqua.
  • Canalette di scolo: Piccoli canali a pendenza minima (0,5-1%) che raccolgono l’acqua in eccesso e la convogliano lentamente verso aree di raccolta o dispersione, prevenendo la formazione di rivoli incontrollati.

Queste tecniche, che derivano dall’ingegneria naturalistica, trasformano un problema (la pendenza) in una risorsa, massimizzando l’accumulo di ogni goccia di pioggia e proteggendo il capitale più prezioso dell’agricoltore: il suolo fertile.

La difesa del suolo è una battaglia continua. Per vincerla, è essenziale padroneggiare le tecniche di controllo dell'erosione nei terreni pendenti.

Applicare queste tecniche avanzate trasforma l’approccio alla gestione idrica. L’obiettivo non è più solo combattere la siccità giorno per giorno, ma costruire un sistema agricolo resiliente, capace di prosperare anche in condizioni climatiche difficili. Iniziate oggi a implementare anche solo una di queste strategie per proteggere le vostre colture e il vostro suolo.

Domande frequenti su come ridurre l’evaporazione dal suolo

Qual è la percentuale di ombreggiatura ideale per il basilico ligure?

Per il basilico ligure, una coltura pregiata ma sensibile allo stress termico, si consiglia un’ombreggiatura del 30-35% durante le ore più calde. Questa gradazione protegge le delicate foglie dalle scottature e previene il blocco della fotosintesi, mantenendo una crescita ottimale e preservando l’intensità aromatica.

Le reti fotoselettive colorate sono più efficaci di quelle neutre?

Sì, in molti casi sono più efficaci perché non si limitano a ombreggiare, ma modificano la qualità della luce che arriva alle piante. Ad esempio, le reti rosse stimolano la fruttificazione e l’accrescimento dei frutti, quelle gialle possono ridurre la presenza di alcuni insetti, mentre le reti perlate o bianche diffondono la luce in modo più omogeneo all’interno della chioma, riducendo lo stress e migliorando l’efficienza fotosintetica complessiva.

Quando l’investimento in reti ombreggianti diventa conveniente?

L’investimento diventa conveniente quando le perdite di prodotto dovute a scottature e stress da calore superano un certo valore. Generalmente, con un aumento di resa commerciabile del 15-20% e una riduzione degli scarti per scottatura che può arrivare al 40%, l’investimento si ripaga in un arco di 2-3 stagioni, a seconda della coltura e del costo della rete.

Scritto da Chiara Sartori, Agronoma specializzata in Agroecologia e Rigenerazione del Suolo, consulente per oltre 40 aziende biologiche e biodinamiche nel Centro-Nord Italia. Esperta in gestione della fertilità, cover crops e biodiversità funzionale.